Organoidi per la malattia di Alzheimer

 

 

GIOVANNI ROSSI

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XIX – 26 novembre 2022.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

Un organoide è la riproduzione semplificata e miniaturizzata in vitro di un organo del corpo, a partire da una o poche cellule auto-organizzate in una coltura tridimensionale, che si sviluppa con caratteristiche di anatomia microscopica quasi identiche a quelle dell’organo naturale riprodotto.

Le cellule staminali embrionarie o le cellule staminali pluripotenti indotte, che si impiegano per la realizzazione degli organoidi, hanno la capacità, basata sulle proprietà di auto-rinnovo e differenziazione, di determinare la propria organizzazione tridimensionale secondo i principi di base dell’organogenesi embrionaria naturale.

L’inizio della ricerca per realizzare organi in vitro si fa risalire ai primi esperimenti di dissociazione-riaggregazione condotti nel 1907 da Henry Van Peter Wilson, che dissociò meccanicamente le cellule di una spugna e dimostrò che potevano riaggregarsi formando un intero organismo. Da allora, una lunga storia di studi proceduti per piccoli passi nel corso di un’ottantina di anni ha prodotto numerosi tentativi di sviluppo bidimensionale in varie specie animali, fino all’avvento della biologia delle cellule staminali. Dal 1987, grazie agli studi sulle cellule staminali e ai progressi tecnologici, si cominciò a coltivare in 3D e non più in 2D come in precedenza, dando luogo alla nascita dell’era degli organoidi.

Nei 35 anni trascorsi fino ad oggi, i laboratori impegnati in questo genere di studi sono costantemente cresciuti di numero e si sono sviluppate scuole specifiche per tipo di organoide da produrre.

Nel 2013 è stato stabilito un protocollo per coltivare organoidi cerebrali da Madeline Lancaster, che lavorava per un incarico post-dottorato[1] con Jurgen Knoblich presso l’Istituto di Biotecnologia Molecolare dell’Accademia Austriaca delle Scienze. Tale protocollo consente di coltivare organoidi cerebrali derivati da cellule staminali che, in parte, riproducono l’organizzazione cellulare embriogenetica dell’encefalo umano. Il 2013 è anche convenzionalmente considerato l’anno in cui la coltura di organoidi è diventata uno strumento della ricerca biomedica[2].

Gli organoidi cerebrali sono oggi uno strumento prezioso, anche se la ricerca per lo sviluppo di organoidi-modello delle malattie neurologiche e psichiatriche è solo agli inizi.

Un nuovo studio, nato dalla collaborazione di ricercatori brasiliani di Rio de Janeiro con ricercatori argentini di Buenos Aires, propone un protocollo per generare organoidi cerebrali umani per lo studio della malattia di Alzheimer.

(Karmirian K. et al., Modeling Alzheimer’s Disease Using Human Brain Organoids. Methods in Molecular Biology 2561: 135-158, 2023 – Epub ahead of print doi: 10.1007/978-1-0716-2655-9_7, 2023).

La provenienza degli autori è la seguente: D’Or Institute for Research and Education (IDOR), Rio de Janeiro (Brasile); Institute of Biomedical Sciences, Rio de Janeiro (Brasile); Department of Genetics, Institute of Biology, Federal University of Rio de Janeiro, Rio de Janeiro (Brasile); Institute of Cellular Biology and Neuroscience IBCN (UBA-CONICET), Partner Institute of the Max Plank Society, Buenos Aires (Argentina); Buenos Aires Institute of Research in Biomedicine, Partner Institute of the Max Plank Society, Buenos Aires (Argentina).

Dal 1907, quando Alois Alzheimer pubblicò la descrizione della neuropatologia della paziente Auguste Deter, costituita da placche amiloidi extracellulari macroscopiche e degenerazione neurofibrillare intraneuronica, si studia la composizione e l’origine del materiale peptidico che forma le cosiddette “placche senili”; non molto tempo dopo è cominciato lo studio della degenerazione intraneuronica, poi identificata con una taupatia. Nonostante la grande messe di dati ottenuti dalla ricerca e i progressi nella conoscenza biochimica e genetica della demenza neurodegenerativa più grave e diffusa al mondo, non si dispone ancora di una terapia in grado di modificare realmente il corso della malattia e, dell’enorme numero di molecole candidate a diventare nuovi farmaci, solo una piccola parte completa con successo la fase di sperimentazione clinica, e in questa ristretta frazione nessun farmaco finora si è rivelato all’altezza delle aspettative suscitate dalla ricerca preclinica.

Anche per questa ragione, la realizzazione di organoidi di cervello umano affetto da malattia di Alzheimer, su cui sperimentare le nuove molecole candidate assume una notevole importanza.

Prima di esporre in sintesi il lavoro di Karina Karmirian e colleghi coordinati da Stevens Rehen, si propone un’introduzione sulla malattia di Alzheimer e alcuni risultati della ricerca di cui ci siamo occupati in precedenza.

Si riporta lo storico brano di Alois Alzheimer che descrive clinicamente lo stato della paziente Auguste Deter: “Una donna di 51 anni ha mostrato gelosia verso suo marito come primo segno rilevante della malattia. Presto si è potuta notare una perdita di memoria rapidamente ingravescente. Non era in grado di orientarsi nel suo appartamento. Portava oggetti avanti e indietro e li nascondeva. A volte pensava che qualcuno volesse ucciderla e cominciava ad urlare”[3]. Ricordiamo che Alzheimer con queste parole introdusse il caso paradigmatico di una donna ammalata di demenza presenile con sintomi psicotici, che morì nel giro di pochi anni: nei casi familiari della malattia la prognosi è ancora la stessa. A beneficio dei lettori non specialisti si propone di seguito un’introduzione alla demenza neurodegenerativa alzheimeriana tratta da una monografia scritta in passato per i membri della nostra società scientifica e presentata mediante vari brani nella sezione “In Corso” del sito[4], prima di esporre in sintesi il lavoro di Daniel Di Risola e colleghi, qui recensito.

Nel 1906 il neuropatologo tedesco Alois Alzheimer studia al microscopio preparati istologici ricavati da sezioni sottili del cervello di una sua paziente affetta da una complessa e invalidante malattia neuropsichica, caratterizzata da una grave forma di deterioramento mentale ad insorgenza precoce ed andamento rapidamente ingravescente. Descrive due tipi di lesioni che ricollegherà all’eziopatogenesi della malattia: le placche e le alterazioni neurofibrillari. La pubblicazione di questi dati, nel 1907, avvierà la ricerca su quale sia il primum movens patogenetico, le placche amiloidi o la degenerazione neurofibrillare[5].

All’originario lavoro di Alzheimer, Perusini aggiunse nel 1909 tre nuove osservazioni anatomo-cliniche molto dettagliate[6] e i suoi studi negli anni successivi (1910-1911) consentirono la comprensione di alcuni rilevanti aspetti clinici e patologici, così che la malattia detta in Germania “morbo di Alzheimer”, divenne nota in Italia come “morbo di Alzheimer-Perusini”. Il grande nosografista Kraepelin la ritenne una forma grave e precoce di demenza senile, secondo il concetto di senilità precoce di Fuller, anche se già nel 1910 le riconosceva autonomia nosografica costituendo la nuova categoria diagnostica della malattia di Alzheimer[7].

Anche se l’identificazione di questa nuova malattia da parte di Alois Alzheimer destò l’interesse di neurologi e ricercatori dell’epoca, per molto tempo fu vista solo come una curiosità medica perché rarissimamente diagnosticata. Per decenni, le ipotesi sulla sua eziologia e le opinioni sulle caratteristiche della patologia e della clinica hanno ispirato filoni di ricerca ed acceso dibattiti, senza però migliorare la conoscenza e la comprensione dei processi alla base di questa grave ed inesorabile perdita delle funzioni mentali e più in generale cerebrali, che termina con esito infausto.

“Si può dire che il primo reale progresso fu compiuto nel 1984, quando George G. Glenner dell’Università della California a San Diego riuscì ad isolare dal materiale amiloide delle placche un corto peptide, costituito da 40 o 42 aminoacidi, cui si diede il nome di peptide β-amiloide (Aβ).

Poco tempo dopo quattro diversi gruppi di ricerca sequenziarono il gene che codifica la proteina da cui il peptide origina. Così come erano parse sorprendenti le piccole dimensioni del peptide in grado di formare fibrille e accumuli di sostanza extracellulare, sorpresero le grandi dimensioni della proteina codificata dal gene di recente individuato. Il peptide beta-amiloide era un frammento di una macromolecola di membrana cui si diede il nome di precursore del peptide beta amiloide o beta-amyloid precursor protein o βAPP. […]

Nel 1991, studiando il DNA di una famiglia con Alzheimer ad insorgenza precoce, un gruppo della St. Mary’s Hospital Medical School di Londra localizzò il gene per la βAPP sul cromosoma 21 e dimostrò che la mutazione puntiforme si verificava proprio nel frammento di DNA codificante il polipeptide precursore. All’incirca in quello stesso periodo altri studi indicavano che in famiglie in cui ricorreva la malattia di Alzheimer il cromosoma 21 poteva essere portatore di un difetto. Questa correlazione era molto suggestiva perché da tempo era noto che i soggetti affetti da sindrome di Down o trisomia 21, quando vivono sufficientemente a lungo, invariabilmente sviluppano i sintomi di una patologia simile all’Alzheimer.

L’idea che il peptide Aβ fosse all’origine della cascata di eventi determinante la progressione della malattia era ormai opinione dominante, nota come “teoria dell’amiloide”, e i dati genetici sembravano confermarla in pieno. Ben presto si formò una vera e propria scuola di pensiero che ebbe, ed ha tuttora, in Dennis Selkoe uno dei maggiori esponenti. […]

Nel 1992 Allen Roses sfidò l’ortodossia β-amiloide: annunciò di aver identificato un gene di suscettibilità per lo sviluppo delle forme più frequenti, ad insorgenza nell’età media e avanzata. Si trattava del gene per l’allele “ε4” dell’apolipoproteina E (APOE), cioè una variante di una lipoproteina che trasporta il colesterolo. […]

La teoria dell’amiloide sembrò avere una conferma decisiva nel 1995 quando Peter H. St George Hyslop, con i suoi collaboratori, clonò due geni cui diede il nome di presenilina 1 e presenilina 2. Le alterazioni di questi geni erano state messe in relazione con una forma della malattia estremamente aggressiva e ad insorgenza molto precoce, in cui la sintomatologia talvolta esordiva già intorno ai 28 anni, divenendo presto molto grave. […]

Nel 1998 Rudolph Tanzi, genetista di Harvard, ritenne di aver identificato sul cromosoma 12, in un gene detto A2M, un altro importante fattore di suscettibilità: la sua tesi era che questo gene fosse in grado di determinare il tasso di produzione di β-amiloide da parte dei neuroni. L’ipotesi fu respinta, non solo da coloro che dubitavano del valore della ricerca sui geni di suscettibilità, ma dallo stesso Allen Roses, il quale aveva lavorato a quel locus del cromosoma 12, addirittura registrando un brevetto sull’A2M e, successivamente, si era convinto della mancanza di un legame diretto con la patologia. […]

Il precursore della proteina β-amiloide (βAPP) è sintetizzato da molte specie cellulari ed è una proteina di membrana, la cui lunghezza varia da 695 a 770 aminoacidi. Le due estremità idrofile della macromolecola sporgono l’una nel citoplasma e l’altra, la più lunga, nello spazio extracellulare. Da quest’ultima proviene il peptide beta-amiloide.

La funzione fisiologica non è nota[8] ma si sa che va incontro ad un processo di scissione enzimatica secondo due diverse modalità. […]

La prima modalità prevede una tappa catalizzata da un enzima detto α-secretasi, in grado di scindere dal precursore un peptide che sarà attaccato da un secondo enzima, la γ-secretasi, la cui azione dà origine ad un frammento fisiologico, definito p3.

Questa modalità, ossia la scissione mediante α-secretasi/γ-secretasi, dà sempre luogo ad un peptide non patogeno.

La seconda modalità differisce per l’enzima che interviene nella prima tappa, in questo caso è la β-secretasi: uno dei frammenti prodotti, costituito da 99 aminoacidi, il C99-βAPP, sottoposto all’azione della γ-secretasi dà luogo alla formazione del peptide β-amiloide[9]. La successione beta-secretasi/gamma secretasi genera per il 90% molecole di 40 aminoacidi e, per la parte rimanente, peptidi di 42 aminoacidi. Solo questa piccola frazione sembra in grado di innescare la successione di eventi che determina la formazione delle placche”[10].

Queste nozioni costituiscono ormai una base consolidata delle conoscenze patologiche sul gravissimo e ancora inguaribile processo neurodegenerativo. Riportiamo ora, qui di seguito, elementi di più recente acquisizione tratti dall’introduzione a uno studio presentato lo scorso anno[11].

La malattia di Alzheimer, la più comune[12] e grave demenza neurodegenerativa, costituisce una categoria nosografica definita in base ad elementi patogenetici e clinici comuni, ma in realtà costituita da forme diverse per eziologia, che può essere esclusivamente genetica (forme familiari) o multifattoriale e prevalentemente indeterminata (forme sporadiche); per esordio, che può essere precoce, presenile[13], nell’età media della vita oppure in età senile o più spesso nella tarda senilità; e per fisiopatologia: può presentare entrambi i contrassegni istopatologici descritti da Alzheimer e Perusini, ossia placche amiloidi neuritiche e grovigli neurofibrillari intraneuronici, oppure uno solo dei due, presentandosi come tipo con placche soltanto (plaque only type) o come taupatia senza placche evidenti associata a demenza[14].

La maggior parte dei ricercatori che ritiene irrilevante la differenza causale di fronte ad una patogenesi pressoché identica in tutte le forme suppone che, nella sequenza di eventi patogenetici, si possa identificare una tappa da bloccare per ottenere l’arresto della progressione in tutti i casi; fra coloro che considerano rilevante il primum movens etiologico, vi sono ricercatori che attribuiscono al rapporto biochimico fra evento causale e innesco della patogenesi un valore di conoscenza chiave per giungere a trattamenti (ed eventuali programmi di prevenzione) specifici per le singole forme.

In ogni caso, lo studio della genetica è importante perché, anche se le forme eredo-familiari costituiscono una esigua minoranza, anche in quelle ad eziologia ignota si suppone un ruolo non irrilevante del genotipo per lo sviluppo della malattia. Inoltre, la ricerca condotta soprattutto negli ultimi decenni sulle cause genetiche delle anomalie molecolari riscontrate, pur non essendo stata ancora decisiva per la comprensione dell’origine della maggioranza dei casi, ha fornito dati e nozioni di notevole interesse. Un esempio è l’identificazione da parte di St. George-Hyslop e colleghi, in pazienti affetti da forme ereditarie della malattia, di geni codificanti versioni alterate della APP (amyloid precursor protein) localizzati sul cromosoma 21 accanto al gene βA. Questa scoperta ha fornito una spiegazione per le alterazioni alzheimeriane – in passato interpretate come invecchiamento precoce – che si rilevano nel cervello di tutti gli affetti da sindrome di Down o trisomia 21 che vivano oltre i 28 anni: avendo tre copie del cromosoma 21, producono amiloide in eccesso.

Anche se la scoperta ha consentito di spiegare quel dato patologico interpretato come segno di invecchiamento precocissimo del cervello nella sindrome di Down, rende conto della probabile causa solo di una piccolissima frazione di casi eredofamiliari di malattia di Alzheimer che, a loro volta, costituiscono una piccola parte del totale. In altre stirpi familiari studiate per la presenza di casi ad ogni generazione, ereditati verosimilmente come un carattere mendeliano autosomico dominante, sono state identificate rare mutazioni nel gene della presenilina 1 (localizzato sul cromosoma 14) responsabili in alcuni studi fino al 50% dei casi familiari, e della presenilina 2 (localizzato sul cromosoma 1) responsabile di una quota degli altri casi ereditari[15].

La presenza di amiloide aberrante da sola non è in grado nel resto della popolazione di causare la malattia neurodegenerativa, così si sono studiati i geni associati quali fattori di rischio. Il primo ad essere scoperto fu “Apo E”[16], un regolatore del metabolismo lipidico che ha un’affinità per la β-amiloide delle placche neuritiche della malattia di Alzheimer e si è rivelato in grado di modificare il rischio di acquisire la malattia di Alzheimer. In particolare, fra le varie isoforme della lipoproteina, la presenza di E4 e del suo corrispondente allele ε4 sul cromosoma 19 è associata ad una probabilità tripla di sviluppare la malattia. Il possesso di due alleli ε4 sembra dare certezza della malattia a coloro che superano gli ottanta anni. L’allele ε4 modifica anche l’età di esordio di alcune delle forme familiari della malattia. Vari studi hanno dimostrato che, all’opposto, l’allele ε2 è poco rappresentato nelle persone affette da malattia di Alzheimer.

Anche se decisamente più raro delle varianti di Apo E, un polimorfismo in TREM2 conferisce uguale probabilità di sviluppare la malattia. Nelle forme sporadiche, questo polimorfismo è responsabile di un difetto di fagocitosi dell’amiloide che avviene nel normale ciclo fisiologico, contribuendo all’accumulo. Altri meccanismi ipotizzati per la partecipazione delle varianti di questo gene alla patogenesi non hanno ancora ricevuto conferma sperimentale.

Un’altra variazione genica, implicata sicuramente in forme familiari della malattia di Alzheimer, è stata registrata presso il sito dell’ubiquilina 1, cioè UBQLN1 codificante una proteina che interagisce con PS1 e PS2, oltre a partecipare alla degradazione proteasomica.

L’importanza dello studio della genetica si può desumere dagli importanti elementi di conoscenza che sono stati ottenuti dall’analisi di interi alberi genealogici di pazienti affetti dalla demenza neurodegenerativa.

Nei cenni storici sulle origini di questa patologia si cita sempre il caso di Auguste Deter, la paziente che morì a soli 55 anni e dal cui cervello Alois Alzheimer prelevò i campioni sui quali scoprì placche amiloidi e ammassi neurofibrillari, ma non si riporta di un secondo caso, pubblicato dal neurologo tedesco col nome di Johann F. e caratterizzato dall’assenza di degenerazione neurofibrillare, cioè il primo paziente affetto dal plaque only type[17]. Nel suo cervello, oltre ai segni generici di encefalopatia atrofica, si rilevavano solo gli accumuli macroscopici di amiloide extracellulare, denominati da Alzheimer placche senili, secondo la terminologia anatomopatologica dell’epoca. La ricorrenza della malattia nella famiglia di Johann aveva indotto a supporre già a quell’epoca una causa genetica. In questo secolo, quando i ricercatori impegnati nella ricerca del primum movens causale della malattia si dividevano in due fazioni, la prima sostenitrice della “teoria della β-amiloide” con capofila Dennis Selkoe e la seconda sostenitrice della “teoria della tau”, rappresentata dalla scuola di Rudolf Tanzi, si decise di andare alla ricerca dei discendenti Johann per verificare se fra loro vi fossero ammalati di demenza neurodegenerativa e studiarne esaustivamente il profilo biomolecolare.

In estrema sintesi, i sostenitori della “teoria della β-amiloide” ritenevano che i peptidi βA amiloidogenici, ossia quelli generati dalla scissione della γ-secretasi con una lunghezza uguale o superiore a 42 aminoacidi, innescassero tutte le catene di eventi culminanti in degenerazione, apoptosi e necrosi; i sostenitori della “teoria della tau” ritenevano che l’iperfosforilazione della proteina associata ai microtubuli tau fosse responsabile della sequenza di eventi che porta a morte i neuroni e consideravano le placche amiloidi delle semplici “pietre tombali” formate nelle sedi di distruzione del tessuto nervoso. Per i sostenitori di questa seconda tesi, i casi come quello di Johann, in cui vi erano solo placche senza ammassi neurofibrillari, erano dovuti a una causa da scoprire, ma sempre intraneuronica.

Klunemann e colleghi afferenti alla Clinica Psichiatrica dell’Università di Regensburg (Germania) riuscirono a rintracciare i discendenti del secondo paziente di Alzheimer, ne studiarono il profilo genetico secondo le acquisizioni più recenti di quegli anni, ricostruirono l’albero genealogico e poi chiesero l’aiuto di St. George-Hyslop[18]. I ricercatori fecero un lavoro straordinario: grazie a numerose tracce documentali reperite con l’aiuto delle famiglie dei pazienti, riuscirono a risalire lungo la linea degli antenati fino al 1670, ed elaborarono un fedele albero delle parentele che al 2007 contava 1403 discendenti. I quattro discendenti affetti da demenza all’epoca dello studio, la avevano ereditata come un carattere mendeliano semplice autosomico dominante. Klunemann, St. George-Hyslop e colleghi testarono i “geni di rischio dominanti” allora noti, ossia APP, PS1, PS2, PRNP e BRI, senza riuscire a trovare un allele già identificato come patologico[19]. Anche se questo studio non identificò la causa genetica dell’Alzheimer di quella stirpe, contribuì alla demolizione della dicotomia β-amiloide/tau. Infatti, se il primum movens sono i peptidi βA, in grado di innescare reazioni che portano nei neuroni all’iperfosforilazione della tau con conseguente degenerazione fibrillare seguita da distruzione degli assoni e poi del corpo cellulare neuronico, come e perché avviene la distruzione neuronica con gli stessi esiti clinici senza la distruzione della tau? La conclusione ipotetica della nostra scuola neuroscientifica è che ci si trova di fronte a patologie diverse che non differiscono solo nell’innesco eziologico ma anche, sia pure in parte, nella patogenesi.

Per dirimere queste questioni sarà necessario scoprire i meccanismi molecolari che mediano gli effetti dei molteplici fattori causali e, visto che le alterazioni molecolari e i processi patologici finora esaminati si sono rivelati quanto meno insufficienti ad orientare delle risposte, si è proceduto attraverso analisi del trascrittoma, i cui risultati hanno suggerito nuovi progetti di ricerca[20].

Dopo questa introduzione alla malattia di Alzheimer e ad alcuni problemi posti dalla sua patologia all’attualità della ricerca, ritorniamo all’argomento dello studio qui recensito.

La necessità di risolvere gli enigmi patologici, di definire con certezza tutti i passi dei processi biochimici che portano dai fattori causali alla degenerazione e di disporre di modelli realmente prossimi alla realtà patologica umana e affidabili per la sperimentazione farmacologica, troppo spesso foriera di illusioni sull’efficacia dei nuovi farmaci studiati sugli attuali modelli preclinici, ha portato allo sviluppo di nuove tecniche e procedure, fra le quali le metodiche basate sull’impiego di cellule staminali costituiscono l’espressione più avanzata e promettente, particolarmente nei progetti che realizzano organoidi cerebrali umani.

Gli organoidi cerebrali, che abbiamo definito all’inizio di questo articolo, sono dunque aggregati cellulari tridimensionali derivati, come nel caso dello studio sudamericano qui recensito, da IPSC che ricreano in coltura interazioni cellulari neurali tipiche del cervello naturale e caratteristiche istologiche del sistema nervoso centrale umano che mancano nei modelli finora utilizzati. Karina Karmirian e gli altri colleghi coordinati da Stevens Rehen descrivono in dettaglio il protocollo da loro adoperato per la generazione di organoidi cerebrali umani derivati da pazienti affetti da malattia di Alzheimer e per l’analisi della patologia derivata dal cervello di questi pazienti.

 

Gli organoidi così realizzati presentano ogni aspetto della patologia beta-amilode e tau e costituiscono, in tal modo, uno strumento realmente promettente per lo studio dei meccanismi molecolari nelle reali condizioni di interazione tessutale, e capace di offrire un primo screening di quei problemi assenti nella sperimentazione animale e che sorgono nella sperimentazione clinica, ridimensionando l’efficacia delle molecole candidate nella massima parte se non nella totalità dei casi giunti alla verifica sui volontari.

 

L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giovanni Rossi

BM&L-26 novembre 2022

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] Madeline Lancaster è una ricercatrice americana di neurobiologia dello sviluppo: ha studiato biochimica all’Occidental College in Los Angeles (2000-2004) e ha poi completato il suo PhD all’Università della California in San Diego con Joseph Gleeson.

[2] La rivista The Scientist definì la realizzazione degli organoidi il più grande progresso scientifico del 2013.

[3] Note e Notizie 00-03-07 I discendenti di Johann, paziente di Alzheimer. Dopo il caso celeberrimo di Auguste D., Alzheimer pubblicò un secondo caso, quello di Johann F. in cui era assente la degenerazione neurofibrillare (plaque only type); si veda la nostra interessante recensione dello studio dei discendenti affetti da questa forma ereditaria di malattia di Alzheimer.

[4] Perrella G., La Malattia di Alzheimer – un’introduzione. BM&L-Italia, Firenze 2004.

[5] Alzheimer A., Ueber eigenartige Erkrankung der Hirnrinden, Allg. Ztschr. Für Psychiat. 1907.

[6] Perusini G., Ueber klinisch und histologisch eigenartige psychische Erkrankungen des spateren Lebensalters, Hist. und Histopathol. Arb. Nissl. 3: 297, 1910.

[7] Cfr. Kraepelin E., Lehrbuch der Psychiatrie, Barth, Leipzig 1912.

[8] Numerosi studi hanno fornito nel frattempo (il testo monografico è del 2004) evidenze che indicano ruoli fisiologici della βAPP; di questi studi si trovano recensioni nelle “Note e Notizie” di questi anni.

[9] Su questa base si impiegano in terapia gli inibitori di BACE (Beta-secretase cleaving enzyme).

[10] Perrella G., op. cit.q

[11] Note e Notizie 28-11-20 Nella malattia di Alzheimer deregolazione di geni e isoforme.

[12] La prevalenza di 10.800 su 100.000 fra gli ultra ottantenni è stima ricorrente in vari studi condotti in tutto il mondo.

[13] In rare forme familiari sono stati descritti casi con esordio in età giovanile. Nei criteri diagnostici si considera un’età sempre superiore ai 40 anni.

[14] L’Adams e Victor’s, ossia l’attuale gold standard in neurologia clinica, ribadendo che è superata la distinzione fra demenza senile e malattia di Alzheimer (classificata in passato come demenza presenile perché la prima paziente di Alois Alzheimer aveva solo 51 anni all’esordio, e perché fino a qualche decennio fa si diagnosticavano come malattia di Alzheimer solo i casi a insorgenza precoce) propone di considerare related but separable le varie forme eredofamiliari finora accertate e descritte (Adams e Victor’s Principles of Neurology by Allan H. Ropper, Martin A. Samuels, Joshua Klein, 10th edition, p. 1063, McGraw-Hill, New York 2014). Non tutte le volte che si rileva un marcato declino cognitivo in età avanzata, con punteggi dei test corrispondenti alle prestazioni dei pazienti affetti dalla grave patologia neurodegenerativa, ci troviamo di fronte alla malattia di Alzheimer: il trattamento cognitivo con CACR (sistema computerizzato ideato dai coniugi Gianutsos con Luciano Lugeschi al Bellevue Hospital), nuove versioni o sistemi equivalenti, determina miglioramento e talvolta totale recupero nei casi non dovuti a neurodegenerazione alzheimeriana; presentazioni cliniche indistinguibili da quella della malattia di Alzheimer possono avere la paralisi sopranucleare progressiva, la malattia a corpi di Lewy, la degenerazione cortico-basale, la malattia di Pick (ossia la degenerazione lobare fronto-temporale) e altre patologie neurodegenerative non alzheimeriane.

[15] Bateman R. J., et al. Clinical and biomarker changes in dominantly inherited Alzheimer disease. New England Journal of Medicine 367: 367, 2012.

[16] Il massimo studioso di questo fattore di rischio è stato Allen Roses, ai cui studi si rimanda per la dettagliata documentazione del percorso di ricerca che ha condotto alle conoscenze attuali sul ruolo di Apo E ε4.

[17] Costituisce uno specifico sottogruppo nella classificazione internazionale più spesso adottata.

[18] Note e Notizie 17-03-07 I discendenti di Johann paziente di Alzheimer.

[19] Cfr. Note e Notizie 17-03-07 I discendenti di Johann paziente di Alzheimer.

[20] Si veda Note e Notizie 24-04-21 Metaboliti noti con ruoli causali nella malattia di Alzheimer.