Organoidi per la malattia di
Alzheimer
GIOVANNI
ROSSI
NOTE E NOTIZIE - Anno XIX – 26 novembre
2022.
Testi
pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di
Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie
o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione
“note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati
fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui
argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: RECENSIONE]
Un organoide è la riproduzione semplificata e
miniaturizzata in vitro di un organo del corpo, a partire da una o poche
cellule auto-organizzate in una coltura tridimensionale, che si sviluppa con caratteristiche
di anatomia microscopica quasi identiche a quelle dell’organo naturale
riprodotto.
Le cellule staminali embrionarie o le cellule
staminali pluripotenti indotte, che si impiegano per la realizzazione degli
organoidi, hanno la capacità, basata sulle proprietà di auto-rinnovo e
differenziazione, di determinare la propria organizzazione tridimensionale
secondo i principi di base dell’organogenesi embrionaria naturale.
L’inizio della ricerca per realizzare organi in
vitro si fa risalire ai primi esperimenti di dissociazione-riaggregazione
condotti nel 1907 da Henry Van Peter Wilson, che dissociò meccanicamente le
cellule di una spugna e dimostrò che potevano riaggregarsi formando un intero
organismo. Da allora, una lunga storia di studi proceduti per piccoli passi nel
corso di un’ottantina di anni ha prodotto numerosi tentativi di sviluppo
bidimensionale in varie specie animali, fino all’avvento della biologia delle cellule
staminali. Dal 1987, grazie agli studi sulle cellule staminali e ai progressi
tecnologici, si cominciò a coltivare in 3D e non più in 2D come in precedenza,
dando luogo alla nascita dell’era degli organoidi.
Nei 35 anni trascorsi fino ad oggi, i laboratori impegnati
in questo genere di studi sono costantemente cresciuti di numero e si sono
sviluppate scuole specifiche per tipo di organoide da produrre.
Nel 2013 è stato stabilito un protocollo per
coltivare organoidi cerebrali da Madeline Lancaster, che lavorava per un
incarico post-dottorato[1] con
Jurgen Knoblich presso l’Istituto di Biotecnologia
Molecolare dell’Accademia Austriaca delle Scienze. Tale protocollo consente di
coltivare organoidi cerebrali derivati da cellule staminali che, in parte,
riproducono l’organizzazione cellulare embriogenetica dell’encefalo umano. Il
2013 è anche convenzionalmente considerato l’anno in cui la coltura di
organoidi è diventata uno strumento della ricerca biomedica[2].
Gli organoidi cerebrali sono oggi uno strumento prezioso,
anche se la ricerca per lo sviluppo di organoidi-modello delle malattie
neurologiche e psichiatriche è solo agli inizi.
Un nuovo studio, nato dalla collaborazione di
ricercatori brasiliani di Rio de Janeiro con ricercatori argentini di Buenos
Aires, propone un protocollo per generare organoidi cerebrali umani per lo
studio della malattia di Alzheimer.
(Karmirian K. et al., Modeling Alzheimer’s Disease Using Human Brain Organoids.
Methods in Molecular Biology 2561: 135-158, 2023 – Epub ahead of print doi: 10.1007/978-1-0716-2655-9_7, 2023).
La provenienza degli autori è la seguente: D’Or
Institute for Research and Education (IDOR), Rio de Janeiro (Brasile); Institute of Biomedical Sciences, Rio de Janeiro
(Brasile); Department of Genetics, Institute of Biology,
Federal University of Rio de Janeiro, Rio de Janeiro (Brasile);
Institute of Cellular Biology and Neuroscience IBCN (UBA-CONICET), Partner
Institute of the Max Plank Society, Buenos Aires (Argentina); Buenos Aires Institute
of Research in Biomedicine, Partner Institute of the Max Plank Society, Buenos
Aires (Argentina).
Dal 1907, quando Alois Alzheimer pubblicò la descrizione
della neuropatologia della paziente Auguste Deter, costituita da placche
amiloidi extracellulari macroscopiche e degenerazione neurofibrillare
intraneuronica, si studia la composizione e l’origine del materiale peptidico
che forma le cosiddette “placche senili”; non molto tempo dopo è cominciato lo
studio della degenerazione intraneuronica, poi identificata con una taupatia.
Nonostante la grande messe di dati ottenuti dalla ricerca e i progressi nella
conoscenza biochimica e genetica della demenza neurodegenerativa più grave e
diffusa al mondo, non si dispone ancora di una terapia in grado di modificare
realmente il corso della malattia e, dell’enorme numero di molecole candidate a
diventare nuovi farmaci, solo una piccola parte completa con successo la fase
di sperimentazione clinica, e in questa ristretta frazione nessun farmaco
finora si è rivelato all’altezza delle aspettative suscitate dalla ricerca
preclinica.
Anche per questa ragione, la realizzazione di
organoidi di cervello umano affetto da malattia di Alzheimer, su cui
sperimentare le nuove molecole candidate assume una notevole importanza.
Prima di esporre in sintesi il lavoro di Karina Karmirian e colleghi coordinati da Stevens Rehen, si propone un’introduzione sulla malattia di
Alzheimer e alcuni risultati della ricerca di cui ci siamo occupati in
precedenza.
Si riporta lo storico brano di Alois Alzheimer che
descrive clinicamente lo stato della paziente Auguste Deter: “Una donna di 51 anni ha mostrato
gelosia verso suo marito come primo segno rilevante della malattia. Presto si è
potuta notare una perdita di memoria rapidamente ingravescente. Non era in
grado di orientarsi nel suo appartamento. Portava oggetti avanti e indietro e
li nascondeva. A volte pensava che qualcuno volesse ucciderla e cominciava ad
urlare”[3]. Ricordiamo che Alzheimer con queste parole
introdusse il caso paradigmatico di una donna ammalata di demenza presenile con
sintomi psicotici, che morì nel giro di pochi anni: nei casi familiari della
malattia la prognosi è ancora la stessa. A beneficio dei lettori non specialisti si propone di
seguito un’introduzione alla demenza neurodegenerativa alzheimeriana tratta da una monografia scritta in
passato per i membri della nostra società scientifica e presentata mediante
vari brani nella sezione “In Corso” del sito[4], prima
di esporre in sintesi il lavoro di Daniel Di Risola e colleghi, qui recensito.
Nel
1906 il neuropatologo tedesco Alois Alzheimer studia al microscopio preparati istologici
ricavati da sezioni sottili del cervello di una sua paziente affetta da una complessa
e invalidante malattia neuropsichica, caratterizzata da una grave forma di
deterioramento mentale ad insorgenza precoce ed andamento rapidamente ingravescente.
Descrive due tipi di lesioni che ricollegherà all’eziopatogenesi della
malattia: le placche e le alterazioni neurofibrillari. La pubblicazione di
questi dati, nel 1907, avvierà la ricerca su quale sia il primum movens patogenetico, le placche amiloidi o la degenerazione
neurofibrillare[5].
All’originario
lavoro di Alzheimer, Perusini aggiunse nel 1909 tre nuove osservazioni anatomo-cliniche
molto dettagliate[6] e i suoi studi negli anni successivi
(1910-1911) consentirono la comprensione di alcuni rilevanti aspetti clinici e
patologici, così che la malattia detta in Germania “morbo di Alzheimer”, divenne
nota in Italia come “morbo di Alzheimer-Perusini”. Il grande nosografista
Kraepelin la ritenne una forma grave e precoce di demenza senile, secondo il
concetto di senilità precoce di Fuller, anche se già nel 1910 le riconosceva
autonomia nosografica costituendo la nuova categoria diagnostica della malattia
di Alzheimer[7].
Anche
se l’identificazione di questa nuova malattia da parte di Alois Alzheimer destò
l’interesse di neurologi e ricercatori dell’epoca, per molto tempo fu vista
solo come una curiosità medica perché rarissimamente diagnosticata. Per
decenni, le ipotesi sulla sua eziologia e le opinioni sulle caratteristiche
della patologia e della clinica hanno ispirato filoni di ricerca ed acceso
dibattiti, senza però migliorare la conoscenza e la comprensione dei processi
alla base di questa grave ed inesorabile perdita delle funzioni mentali e più
in generale cerebrali, che termina con esito infausto.
“Si
può dire che il primo reale progresso fu compiuto nel 1984, quando George G. Glenner dell’Università della California a San Diego riuscì
ad isolare dal materiale amiloide delle placche un corto peptide, costituito da
40 o 42 aminoacidi, cui si diede il nome di peptide β-amiloide (Aβ).
Poco
tempo dopo quattro diversi gruppi di ricerca sequenziarono il gene che codifica
la proteina da cui il peptide origina. Così come erano parse sorprendenti le
piccole dimensioni del peptide in grado di formare fibrille e accumuli di sostanza
extracellulare, sorpresero le grandi dimensioni della proteina codificata dal
gene di recente individuato. Il peptide beta-amiloide era un frammento di una
macromolecola di membrana cui si diede il nome di precursore del peptide beta
amiloide o beta-amyloid precursor protein o βAPP. […]
Nel
1991, studiando il DNA di una famiglia con Alzheimer ad insorgenza precoce, un
gruppo della St. Mary’s Hospital Medical
School di Londra localizzò il gene per la βAPP sul cromosoma 21 e dimostrò
che la mutazione puntiforme si verificava proprio nel frammento di DNA
codificante il polipeptide precursore. All’incirca in quello stesso periodo
altri studi indicavano che in famiglie in cui ricorreva la malattia di
Alzheimer il cromosoma 21 poteva essere portatore di un difetto. Questa
correlazione era molto suggestiva perché da tempo era noto che i soggetti
affetti da sindrome di Down o trisomia 21, quando vivono sufficientemente a
lungo, invariabilmente sviluppano i sintomi di una patologia simile
all’Alzheimer.
L’idea
che il peptide Aβ fosse all’origine della cascata di eventi determinante
la progressione della malattia era ormai opinione dominante, nota come “teoria
dell’amiloide”, e i dati genetici sembravano confermarla in pieno. Ben presto
si formò una vera e propria scuola di pensiero che ebbe, ed ha tuttora, in
Dennis Selkoe uno dei maggiori esponenti. […]
Nel
1992 Allen Roses sfidò l’ortodossia β-amiloide: annunciò di aver
identificato un gene di suscettibilità per lo sviluppo delle forme più
frequenti, ad insorgenza nell’età media e avanzata. Si trattava del gene per
l’allele “ε4” dell’apolipoproteina E (APOE), cioè una variante di una
lipoproteina che trasporta il colesterolo. […]
La
teoria dell’amiloide sembrò avere una conferma decisiva nel 1995 quando Peter
H. St George Hyslop, con i suoi collaboratori, clonò due geni cui diede il nome
di presenilina 1 e presenilina 2. Le alterazioni di questi
geni erano state messe in relazione con una forma della malattia estremamente
aggressiva e ad insorgenza molto precoce, in cui la sintomatologia talvolta
esordiva già intorno ai 28 anni, divenendo presto molto grave. […]
Nel
1998 Rudolph Tanzi, genetista di Harvard, ritenne di aver identificato sul
cromosoma 12, in un gene detto A2M, un altro importante fattore di suscettibilità:
la sua tesi era che questo gene fosse in grado di determinare il tasso di
produzione di β-amiloide da parte dei neuroni. L’ipotesi fu respinta, non
solo da coloro che dubitavano del valore della ricerca sui geni di
suscettibilità, ma dallo stesso Allen Roses, il quale aveva lavorato a quel
locus del cromosoma 12, addirittura registrando un brevetto sull’A2M e,
successivamente, si era convinto della mancanza di un legame diretto con la
patologia. […]
Il
precursore della proteina β-amiloide (βAPP) è sintetizzato da molte specie
cellulari ed è una proteina di membrana, la cui lunghezza varia da 695 a 770
aminoacidi. Le due estremità idrofile della macromolecola sporgono l’una nel
citoplasma e l’altra, la più lunga, nello spazio extracellulare. Da
quest’ultima proviene il peptide beta-amiloide.
La
funzione fisiologica non è nota[8] ma si sa che va incontro ad un
processo di scissione enzimatica secondo due diverse modalità. […]
La
prima modalità prevede una tappa
catalizzata da un enzima detto α-secretasi,
in grado di scindere dal precursore un peptide che sarà attaccato da un secondo
enzima, la γ-secretasi, la cui
azione dà origine ad un frammento fisiologico, definito p3.
Questa
modalità, ossia la scissione mediante
α-secretasi/γ-secretasi, dà sempre luogo ad un peptide non
patogeno.
La
seconda modalità differisce per
l’enzima che interviene nella prima tappa, in questo caso è la β-secretasi: uno dei frammenti
prodotti, costituito da 99 aminoacidi, il C99-βAPP, sottoposto all’azione
della γ-secretasi dà luogo alla formazione del peptide β-amiloide[9]. La successione
beta-secretasi/gamma secretasi genera per il 90% molecole di 40 aminoacidi e,
per la parte rimanente, peptidi di 42 aminoacidi. Solo questa piccola frazione
sembra in grado di innescare la successione di eventi che determina la
formazione delle placche”[10].
Queste
nozioni costituiscono ormai una base consolidata delle conoscenze patologiche
sul gravissimo e ancora inguaribile processo neurodegenerativo. Riportiamo ora,
qui di seguito, elementi di più recente acquisizione tratti dall’introduzione a
uno studio presentato lo scorso anno[11].
La malattia di Alzheimer, la
più comune[12] e grave demenza neurodegenerativa, costituisce una categoria nosografica definita
in base ad elementi patogenetici e clinici comuni, ma in realtà costituita da
forme diverse per eziologia, che può essere esclusivamente genetica (forme
familiari) o multifattoriale e prevalentemente indeterminata (forme sporadiche);
per esordio, che può essere precoce, presenile[13], nell’età media della vita oppure in età senile o più spesso nella tarda
senilità; e per fisiopatologia: può presentare entrambi i contrassegni istopatologici
descritti da Alzheimer e Perusini, ossia placche amiloidi neuritiche e grovigli
neurofibrillari intraneuronici, oppure uno solo dei due,
presentandosi come tipo con placche soltanto (plaque
only type) o come
taupatia senza placche evidenti associata a demenza[14].
La maggior parte dei ricercatori che
ritiene irrilevante la differenza causale di fronte ad una patogenesi pressoché
identica in tutte le forme suppone che, nella sequenza di eventi patogenetici,
si possa identificare una tappa da bloccare per ottenere l’arresto della progressione
in tutti i casi; fra coloro che considerano rilevante il primum movens etiologico,
vi sono ricercatori che attribuiscono al rapporto biochimico fra evento causale
e innesco della patogenesi un valore di conoscenza chiave per giungere a
trattamenti (ed eventuali programmi di prevenzione) specifici per le singole
forme.
In ogni caso, lo studio della
genetica è importante perché, anche se le forme eredo-familiari costituiscono
una esigua minoranza, anche in quelle ad eziologia ignota si suppone un ruolo
non irrilevante del genotipo per lo sviluppo della malattia. Inoltre, la ricerca
condotta soprattutto negli ultimi decenni sulle cause genetiche delle anomalie
molecolari riscontrate, pur non essendo stata ancora decisiva per la comprensione
dell’origine della maggioranza dei casi, ha fornito dati e nozioni di notevole
interesse. Un esempio è l’identificazione da parte di St. George-Hyslop e colleghi,
in pazienti affetti da forme ereditarie della malattia, di geni codificanti versioni
alterate della APP (amyloid precursor protein)
localizzati sul cromosoma 21 accanto al gene βA. Questa scoperta ha
fornito una spiegazione per le alterazioni alzheimeriane – in passato
interpretate come invecchiamento precoce – che si rilevano nel cervello di
tutti gli affetti da sindrome di Down o trisomia 21 che vivano oltre i 28 anni:
avendo tre copie del cromosoma 21, producono amiloide in eccesso.
Anche se la scoperta ha consentito
di spiegare quel dato patologico interpretato come segno di invecchiamento
precocissimo del cervello nella sindrome di Down, rende conto della probabile causa
solo di una piccolissima frazione di casi eredofamiliari
di malattia di Alzheimer che, a loro volta, costituiscono una piccola parte del
totale. In altre stirpi familiari studiate per la presenza di casi ad ogni
generazione, ereditati verosimilmente come un carattere mendeliano autosomico
dominante, sono state identificate rare mutazioni nel gene della presenilina 1 (localizzato
sul cromosoma 14) responsabili in alcuni studi fino al 50% dei casi familiari,
e della presenilina 2 (localizzato sul cromosoma 1) responsabile di una quota
degli altri casi ereditari[15].
La presenza di amiloide aberrante da
sola non è in grado nel resto della popolazione di causare la malattia
neurodegenerativa, così si sono studiati i geni associati quali fattori di rischio.
Il primo ad essere scoperto fu “Apo E”[16], un regolatore del metabolismo lipidico che ha un’affinità per la β-amiloide
delle placche neuritiche della malattia di Alzheimer e si è rivelato in grado
di modificare il rischio di acquisire la malattia di Alzheimer. In particolare,
fra le varie isoforme della lipoproteina, la presenza di E4 e del suo corrispondente
allele ε4 sul
cromosoma 19 è associata ad una probabilità tripla di sviluppare la malattia.
Il possesso di due alleli ε4 sembra dare certezza della malattia a coloro
che superano gli ottanta anni. L’allele ε4 modifica anche l’età di esordio
di alcune delle forme familiari della malattia. Vari studi hanno dimostrato
che, all’opposto, l’allele ε2 è poco rappresentato nelle persone affette
da malattia di Alzheimer.
Anche se
decisamente più raro delle varianti di Apo E, un polimorfismo in TREM2 conferisce
uguale probabilità di sviluppare la malattia. Nelle forme sporadiche, questo
polimorfismo è responsabile di un difetto di fagocitosi dell’amiloide che
avviene nel normale ciclo fisiologico, contribuendo all’accumulo. Altri meccanismi
ipotizzati per la partecipazione delle varianti di questo gene alla patogenesi
non hanno ancora ricevuto conferma sperimentale.
Un’altra
variazione genica, implicata sicuramente in forme familiari della malattia di
Alzheimer, è stata registrata presso il sito dell’ubiquilina
1, cioè UBQLN1 codificante una proteina che interagisce con PS1 e PS2,
oltre a partecipare alla degradazione proteasomica.
L’importanza
dello studio della genetica si può desumere dagli importanti elementi di
conoscenza che sono stati ottenuti dall’analisi di interi alberi genealogici di
pazienti affetti dalla demenza neurodegenerativa.
Nei cenni storici sulle origini di
questa patologia si cita sempre il caso di Auguste Deter, la paziente che morì
a soli 55 anni e dal cui cervello Alois Alzheimer prelevò i campioni sui quali
scoprì placche amiloidi e ammassi neurofibrillari, ma non si riporta di un secondo
caso, pubblicato dal neurologo tedesco col nome di Johann F. e caratterizzato
dall’assenza di degenerazione neurofibrillare, cioè il primo paziente affetto dal
plaque only type[17]. Nel suo cervello, oltre ai segni generici di encefalopatia atrofica, si
rilevavano solo gli accumuli macroscopici di amiloide extracellulare, denominati
da Alzheimer placche senili, secondo la terminologia anatomopatologica
dell’epoca. La ricorrenza della malattia nella famiglia di Johann aveva indotto
a supporre già a quell’epoca una causa genetica. In questo secolo, quando i
ricercatori impegnati nella ricerca del primum movens causale della
malattia si dividevano in due fazioni, la prima sostenitrice della “teoria
della β-amiloide” con capofila Dennis Selkoe e la seconda sostenitrice
della “teoria della tau”, rappresentata dalla scuola di Rudolf Tanzi, si decise
di andare alla ricerca dei discendenti Johann per verificare se fra loro vi
fossero ammalati di demenza neurodegenerativa e studiarne esaustivamente il
profilo biomolecolare.
In estrema sintesi, i sostenitori
della “teoria della β-amiloide” ritenevano che i peptidi βA amiloidogenici, ossia quelli generati dalla scissione
della γ-secretasi con una lunghezza uguale o superiore a 42 aminoacidi,
innescassero tutte le catene di eventi culminanti in degenerazione, apoptosi e
necrosi; i sostenitori della “teoria della tau” ritenevano che l’iperfosforilazione
della proteina associata ai microtubuli tau fosse responsabile della
sequenza di eventi che porta a morte i neuroni e consideravano le placche
amiloidi delle semplici “pietre tombali” formate nelle sedi di distruzione del
tessuto nervoso. Per i sostenitori di questa seconda tesi, i casi come quello
di Johann, in cui vi erano solo placche senza ammassi neurofibrillari, erano
dovuti a una causa da scoprire, ma sempre intraneuronica.
Klunemann e colleghi afferenti alla Clinica Psichiatrica dell’Università di Regensburg
(Germania) riuscirono a rintracciare i discendenti del secondo paziente di
Alzheimer, ne studiarono il profilo genetico secondo le acquisizioni più
recenti di quegli anni, ricostruirono l’albero genealogico e poi chiesero l’aiuto
di St. George-Hyslop[18]. I ricercatori fecero un lavoro straordinario: grazie a numerose tracce
documentali reperite con l’aiuto delle famiglie dei pazienti, riuscirono a risalire
lungo la linea degli antenati fino al 1670, ed elaborarono un fedele albero
delle parentele che al 2007 contava 1403 discendenti. I quattro discendenti
affetti da demenza all’epoca dello studio, la avevano ereditata come un
carattere mendeliano semplice autosomico dominante. Klunemann,
St. George-Hyslop e colleghi testarono i “geni di rischio dominanti” allora
noti, ossia APP, PS1, PS2, PRNP e BRI, senza riuscire a trovare un allele già
identificato come patologico[19]. Anche se questo studio non identificò la causa genetica dell’Alzheimer di
quella stirpe, contribuì alla demolizione della dicotomia β-amiloide/tau.
Infatti, se il primum movens sono i peptidi βA, in grado di
innescare reazioni che portano nei neuroni all’iperfosforilazione della tau con
conseguente degenerazione fibrillare seguita da distruzione degli assoni e poi
del corpo cellulare neuronico, come e perché avviene la distruzione neuronica con
gli stessi esiti clinici senza la distruzione della tau? La conclusione
ipotetica della nostra scuola neuroscientifica è che ci si trova di fronte a
patologie diverse che non differiscono solo nell’innesco eziologico ma anche,
sia pure in parte, nella patogenesi.
Per dirimere
queste questioni sarà necessario scoprire i meccanismi molecolari che mediano
gli effetti dei molteplici fattori causali e, visto che le alterazioni
molecolari e i processi patologici finora esaminati si sono rivelati quanto
meno insufficienti ad orientare delle risposte, si è proceduto attraverso analisi
del trascrittoma, i cui risultati hanno suggerito nuovi progetti di ricerca[20].
Dopo questa
introduzione alla malattia di Alzheimer e ad alcuni problemi posti dalla sua patologia
all’attualità della ricerca, ritorniamo all’argomento dello studio qui recensito.
La necessità
di risolvere gli enigmi patologici, di definire con certezza tutti i passi dei
processi biochimici che portano dai fattori causali alla degenerazione e di
disporre di modelli realmente prossimi alla realtà patologica umana e affidabili
per la sperimentazione farmacologica, troppo spesso foriera di illusioni sull’efficacia
dei nuovi farmaci studiati sugli attuali modelli preclinici, ha portato allo
sviluppo di nuove tecniche e procedure, fra le quali le metodiche basate sull’impiego
di cellule staminali costituiscono l’espressione più avanzata e promettente,
particolarmente nei progetti che realizzano organoidi cerebrali umani.
Gli organoidi
cerebrali, che abbiamo definito all’inizio di questo articolo, sono dunque aggregati
cellulari tridimensionali derivati, come nel caso dello studio sudamericano qui
recensito, da IPSC che ricreano in coltura interazioni cellulari neurali
tipiche del cervello naturale e caratteristiche istologiche del sistema nervoso
centrale umano che mancano nei modelli finora utilizzati. Karina Karmirian e gli altri colleghi coordinati da Stevens Rehen descrivono in dettaglio il protocollo da loro
adoperato per la generazione di organoidi cerebrali umani derivati da pazienti
affetti da malattia di Alzheimer e per l’analisi della patologia derivata dal
cervello di questi pazienti.
Gli
organoidi così realizzati presentano ogni aspetto della patologia beta-amilode e tau e costituiscono, in tal modo, uno strumento realmente
promettente per lo studio dei meccanismi molecolari nelle reali condizioni di
interazione tessutale, e capace di offrire un primo screening di quei
problemi assenti nella sperimentazione animale e che sorgono nella
sperimentazione clinica, ridimensionando l’efficacia delle molecole candidate
nella massima parte se non nella totalità dei casi giunti alla verifica sui
volontari.
L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e
invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE”
del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).
Giovanni Rossi
BM&L-26 novembre 2022
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La Società
Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International Society
of Neuroscience, è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio
Firenze 1, in data 16 gennaio
2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica e culturale
non-profit.
[1] Madeline Lancaster è una
ricercatrice americana di neurobiologia dello sviluppo: ha studiato biochimica all’Occidental College in Los Angeles (2000-2004) e ha poi
completato il suo PhD all’Università della California in San Diego con Joseph Gleeson.
[2] La rivista The Scientist
definì la realizzazione degli organoidi il più grande progresso scientifico del
2013.
[3] Note e Notizie 00-03-07 I
discendenti di Johann, paziente di Alzheimer. Dopo il caso celeberrimo di
Auguste D., Alzheimer pubblicò un secondo caso, quello di Johann F. in cui era
assente la degenerazione neurofibrillare (plaque
only type); si veda la
nostra interessante recensione dello studio dei discendenti affetti da questa
forma ereditaria di malattia di Alzheimer.
[4] Perrella G., La Malattia di
Alzheimer – un’introduzione.
BM&L-Italia, Firenze 2004.
[5] Alzheimer A., Ueber eigenartige Erkrankung der Hirnrinden, Allg. Ztschr. Für
Psychiat. 1907.
[6]
Perusini G., Ueber klinisch und histologisch eigenartige psychische Erkrankungen des spateren Lebensalters, Hist.
und Histopathol. Arb. Nissl. 3: 297, 1910.
[7]
Cfr. Kraepelin E., Lehrbuch der Psychiatrie, Barth, Leipzig 1912.
[8] Numerosi studi hanno fornito nel
frattempo (il testo monografico è del 2004) evidenze che indicano ruoli fisiologici
della βAPP; di questi studi si trovano recensioni nelle “Note e Notizie”
di questi anni.
[9] Su questa base si impiegano in
terapia gli inibitori di BACE (Beta-secretase cleaving enzyme).
[10] Perrella G., op. cit.q
[11] Note e Notizie 28-11-20 Nella
malattia di Alzheimer deregolazione di geni e isoforme.
[12] La prevalenza di 10.800 su 100.000
fra gli ultra ottantenni è stima ricorrente in vari studi condotti in tutto il
mondo.
[13] In rare forme familiari sono
stati descritti casi con esordio in età giovanile. Nei criteri diagnostici si
considera un’età sempre superiore ai 40 anni.
[14] L’Adams e Victor’s,
ossia l’attuale gold standard in neurologia clinica, ribadendo che è
superata la distinzione fra demenza senile e malattia di Alzheimer (classificata
in passato come demenza presenile perché la prima paziente di Alois Alzheimer
aveva solo 51 anni all’esordio, e perché fino a qualche decennio fa si diagnosticavano
come malattia di Alzheimer solo i casi a insorgenza precoce) propone di
considerare related but
separable le varie forme eredofamiliari
finora accertate e descritte (Adams e Victor’s Principles of Neurology by
Allan H. Ropper, Martin A. Samuels, Joshua Klein, 10th edition, p. 1063, McGraw-Hill, New York 2014). Non tutte le
volte che si rileva un marcato declino cognitivo in età avanzata, con punteggi
dei test corrispondenti alle prestazioni dei pazienti affetti dalla grave patologia
neurodegenerativa, ci troviamo di fronte alla malattia di Alzheimer: il
trattamento cognitivo con CACR (sistema computerizzato ideato dai coniugi
Gianutsos con Luciano Lugeschi al Bellevue Hospital), nuove versioni o sistemi
equivalenti, determina miglioramento e talvolta totale recupero nei casi non
dovuti a neurodegenerazione alzheimeriana; presentazioni cliniche
indistinguibili da quella della malattia di Alzheimer possono avere la paralisi
sopranucleare progressiva, la malattia a corpi di Lewy, la degenerazione
cortico-basale, la malattia di Pick (ossia la degenerazione lobare
fronto-temporale) e altre patologie neurodegenerative non alzheimeriane.
[15]
Bateman R. J., et al. Clinical and biomarker changes in dominantly inherited
Alzheimer disease. New
England Journal of Medicine
367: 367, 2012.
[16] Il massimo studioso di questo
fattore di rischio è stato Allen Roses, ai cui studi si rimanda per la dettagliata
documentazione del percorso di ricerca che ha condotto alle conoscenze attuali sul
ruolo di Apo E ε4.
[17] Costituisce uno specifico
sottogruppo nella classificazione internazionale più spesso adottata.
[18] Note e Notizie 17-03-07 I discendenti
di Johann paziente di Alzheimer.
[19] Cfr. Note e Notizie 17-03-07
I discendenti di Johann paziente di Alzheimer.
[20] Si veda Note e Notizie 24-04-21
Metaboliti noti con ruoli causali nella malattia di Alzheimer.